Il Mattino: Raffaele Cantone, Presidente dell’anticorruzione: L’antimafia a pagamento non è una missione civile di Antonio Manzo
Siamo lieti di pubblicare l’intervista del Mattino di Napoli a Raffaele Cantone, noto Procuratore anti-camora, nominato dal Presidente del Consiglio, Matteo Renzi, Presidente dell’anticorruzione. Molto belle le parole che usa contro quell’antimafia sociale che, come SOS IMPRESA denuncia da tempo, si è trasformata in un’industria, lasciando abbandonati ai propri problemi e drammi le vere vittime del racket e dell’usura. Speriamo che sia solo l’inizio di un percorso che riporti ordine e pulizia tra le varie sigle che animano la lotta alle mafie, fronte da non abbandonare mai, per trasformarla in una vera antimafia delle opportunità per tutti gli italiani onesti. In altri termini, anche l’antimafia deve cambiare verso. (Bi.Lar)
«C’è il rischio che l’Antimafia sociale si trasformi in un lavoro qualsiasi, una sorta di Antimafia a pagamento, magari anche ben remunerata con fondi pubblici. Ma con i casi, fortunatamente molto ridotti, di mala gestione del danaro pubblico garantito al mondo associativo, c’è anche il rischio dell’allontanamento di quanti da decenni si sono spesi come volontari sul fronte antimafia ed antiracket. Si tratta di volontari che, spesso, hanno fronteggiato ogni rischio e pericolo per un’impegno civile di frontiera». Raffaele Cantone, da poche settimane commissario anticorruzione nominato dal Governo, vuole radiografare le zone d’ombra del mondo delle associazioni antiracket con quella Tac collaudata da anni di esperienza sul fronte giudiziario dell’antimafia. Se fosse ancora vivo Sciascia non esiterebbe, di nuovo, a denunciare quel mondo del professionismo dell’antimafia che, con la bandiera della legalità, rischia di finire nelle aula giudiziarie proprio per la ”mercificazione” dell’attività antipizzo ed antiusura. Tutto, naturalmente, con milioni e milioni di euro di finanziamenti pubblici erogati ma poco soggetti ai controlli.
Dottor Cantone, non si rischia di passare dalla fase virtuosa del volontariato antimafia a quello di un «professionismo» remunerato con fondi pubblici, al di fuori di ogni controllo?
«Il rischio c’è, ma noi dobbiamo partire da una premessa necessaria. L’associazionismo antimafia è una virtù civile dell’Italia degli ultimi venti anni. In particolare, quello ”anti-pizzo” e ”anti-usura”, nacque agli inizi degli anni Novanta, in un tempo nel quale neppure lo Stato riusciva a percepire il pericolo della solitudine delle vittime, senza interlocutori istituzionali. Allora, nella fase pioneristica del volontariato, penso alla prima esperienza di Tano Grasso a Capo d’Orlando, in Sicilia, si sviluppò nel Paese un ruolo di frontiera civile molto serio, spesso di emergenza preventiva rispetto all’azione repressiva della magistratura. L’esperienza pioneristica è stata particolarmente positiva, impagabile».
Poi siamo arrivati alla istituzionalizzazione dell’attivismo antimafia ed antiracket, con la pioggia dei finanziamenti pubblici.
«Non trovo di per sè scandaloso che associazioni di volontariato che si offrono sul fronte antimafia possano beneficiare anche di contributi e aiuti economici. Però, a questo punto potrebbe nascere il rischio che il volontariato civile antimafia diventi un lavoro come un altro. È qui che si annida il pericolo delle speculazioni, con un mondo di centinaia di sigle di associazioni sulla cui effettiva attività diventa complicato riscontro rilevante».
Chi dovrebbe azionare questi controlli sulla capacità di incidenza e di attivismo?
«Un’attività di controllo del ministero dell’Interno e delle prefetture».
Basta?
«Potrebbe non bastare. Perchè non sempre in questa fase il controllo è in grado di verificare la operativatà delle associazioni». Ma l’operatività, o presunta tale, è garantita da finanziamenti pubblici. Quindi, se l’associazione non funziona, intasca finanziamenti e finisce solo per sprecare danaro pubblico.
«Ci troviamo di fronte a provvidenze con cifre anche molto significative…».
Quindi, necessità di controlli di bilancio.
«C’è un dato che trascende dal finanziamento alle associazioni antiracket. Ed è quello della gestione dei contributi erogati dallo Stato, dalle Regioni, dall’Unione Europea. Sarebbe già opera rivoluzionaria considerare che chi gestisce danaro di tutti, compresa la sfera associativa antimafia, venisse considerato pubblico ufficiale. Cioè come se i rappresentanti delle associazioni gestissero direttamente attività dello Stato. Sarebbe già un passo avanti».
Perchè?
«Perchè, in sede penale, ci ritroveremmo non più a dover contestare un’appropriazione indebita o una truffa ma una ben più consistente accusa di peculato».
Come controllare i bilanci delle associazioni antiracket?
«Rendiconti rigorosi su bilanci, come quelli delle società, con tanto di voci di entrate e di uscite, oltre che di controlli finali certificati. È chiaro che non basta accertare la ”mala gestio” in sede penale ma bisogna prevedere anche la revoca dei finanziamenti. Di qui, anche i controlli della giurisdizione contabile della Corte dei Conti».
Non le pare un pò paradossale che un’associazione antimafia, antiracket o antiusura che sia, finisca in un’inchiesta penale?
«Si tratta di casi molto ridotti che non minano il grande valore civile del lavoro che moltissime associazioni hanno svolto con grande rigore ed impegno. È chiaro che si tratta di garantire a queste associazioni un presupposto di integrità morale dei suoi rappresentati ed attivisti con standard elevatissimi. Onde evitare incidenti di percorso».
Eppure, questi incidenti si registrano.
«L’Antimafia sociale non è un lavoro. Se si trasforma in una occupazione qualsiasi si perde la connotazione originaria e virtuosa dell’impegno civile. Penso alle migliaia di persone che negli ultimi venti anni, gratis et amore Dei, hanno varcato la soglia delle scuole italiane per tenere lezioni sui pericoli di comunità prese in ostaggio dalle mafie, sulla necessità di evitare che commercianti ed imprenditori finissero nelle morse di racket ed usura».
Cosa accadrebbe se dovesse prevalere l’Antimafia come lavoro e, in alcuni casi, con pericolose e paradossali devianze di spreco, cattiva gestione dei finanziamenti pubblici?
«Subentrerebbe una sorta di depressione civile sul fronte antimafia. Una malattia che colpirebbe i volontari veri, autentici. Quelli che hanno sfidato minacce e pericoli e, spesso, sono arrivati anche prima della magistratura. Ma, al momento, siamo di fronte a marginali storie di devianza di alcune associazioni».
C’è il rischio concreto che cambi il Dna dell’Antimafia sociale?
«Sì c’è. Se l’Antimafia sociale diventa ”istituzione senz’anima” perde il connotato del volontariato. Un lavoro con soldi pubblici, in alcuni casi spesi senza nessun controllo. L’Antimafia a pagamento non sarà più una vera ed autentica missione civile».