AUDIZIONE DI ATTILIO BOLZONI ALLA COMMISSIONE PARLAMENTARE ANTIMAFIA.
COMMISSIONE PARLAMENTARE DI INCHIESTA SUL FENOMENO DELLE MAFIE E SULLE ALTRE ASSOCIAZIONI CRIMINALI.
SEDUTA N. 133 DI MARTEDÌ 2 FEBBRAIO 2016
RESOCONTO STENOGRAFICO AUDIZIONE DEL DOTTOR ATTILIO BOLZONI.
La seduta inizia alle 20.05.
PRESIDENTE. L’ordine del giorno reca l’audizione del dottor Attilio Bolzoni, giornalista del quotidiano La Repubblica. L’audizione rientra nel filone d’inchiesta che la Commissione ha inteso aprire sul movimento civile dell’antimafia per approfondirne i tratti caratteristici, per individuarne i limiti e le contraddizioni evidenziati anche dai recenti fatti di cronaca, ma soprattutto per rilanciarne il significato e l’attività.
In tale ottica si colloca l’audizione odierna del dottor Bolzoni, che tra i primi – forse per primo – si è occupato con le sue inchieste giornalistiche del tema che affrontiamo oggi, soprattutto per quanto riguarda il caso Sicilia.
Ricordo che la seduta si svolge nelle forme dell’audizione libera e che, ove necessario, i lavori potranno proseguire in forma segreta.
Do la parola al dottor Bolzoni, ringraziandolo per la sua presenza. Farà un’introduzione, cui poi seguiranno, come al solito, le nostre domande. Prego.
ATTILIO BOLZONI. Buonasera. Grazie. Innanzitutto vorrei fare una brevissima premessa per inquadrare la questione dell’antimafia dei nostri giorni.
Secondo me, è necessario distinguere con molta responsabilità – altrimenti rischiamo di fare confusione e alla fine di non riuscire a comprendere il fenomeno – la mafia che si traveste da antimafia o fenomeni criminali vicini ad ambienti mafiosi che si sono infiltrati negli ultimi anni nel mondo del movimento antimafia, dalle degenerazioni, dagli smarrimenti e dalle inadeguatezze del movimento antimafia storico. Si tratta di due livelli profondamente diversi. Se si fa confusione, questo mondo entra in corto circuito. Si tratta di due fenomeni diversi anche se in qualche vicenda si possono rintracciare punti di contatto. Questo, secondo me, è il punto dal quale dobbiamo partire se vogliamo fare un’analisi seria e non strumentale della questione che stiamo affrontando.
Per più di trent’anni mi sono occupato di mafia, soprattutto di mafia siciliana, ma a un certo punto ho capito che era l’ora di occuparmi anche di antimafia. È stato circa dieci anni fa, esattamente nel 2005, quando una mattina mi sono svegliato a Palermo e ho visto tutti i muri della città tappezzati da manifesti con una grande scritta nera e la faccia del governatore Totò Cuffaro. La scritta diceva: «La mafia fa schifo». In quel momento Cuffaro era sotto inchiesta per concorso esterno mafioso, ipotesi di reato che è poi stata trasformata in favoreggiamento alla mafia. Come sappiamo, l’ex senatore è stato poi condannato, ha scontato la sua pena e qualche settimana fa è tornato un uomo libero.
In quegli stessi anni, fra il 2005 e il 2007, ho assistito come cronista a processi contro mafiosi di Palermo che in aula gridavano «La mafia fa schifo» mentre venivano condannati a sette, otto, nove o dieci anni per associazione mafiosa.
Ho così capito che quello slogan, «La mafia fa schifo», era una battuta che piaceva tanto anche ai mafiosi. Erano finiti i tempi in cui quella parola, «mafia», a Palermo e in Sicilia non si pronunciava mai. Al contrario, gli uomini d’onore di cosa nostra esibivano pubblicamente la loro antimafiosità. Provavano già allora a infiltrarsi nelle associazioni antiracket, organizzavano convegni e a volte erano i primi a sponsorizzare manifestazioni contro cosa nostra.
A Villabate in quegli anni gli amici di Bernardo Provenzano premiarono, autorizzati dalla famiglia naturalmente, Raoul Bova per una sua fiction, Ultimo, il carabiniere che catturò Riina. A Palermo i capi di Sicindustria del tempo tuonavano pubblicamente contro i boss, ma erano in segreto i loro soci. Ad Altofonte un uomo d’onore molto importante aveva allestito anche una mostra di pittura dedicata a Falcone e Borsellino.
Si sa che la mafia cambia sempre, ma sempre rimanendo se stessa, e che è sempre stata pronta a ogni mutazione sociale. Cambia pelle, cambia vestito, si nasconde. Già dieci anni fa la mafia cominciava a nascondersi dietro gli slogan dei propri nemici. Già dieci anni fa la mafia aveva scoperto il valore dell’antimafia. L’antimafia era diventata già dieci anni fa un capitale per cosa nostra.
In Sicilia era nata una nuova figura già nel 2005: il mafioso antimafioso, il massimo della raffinatezza del pensiero mafioso. Ho seguito queste tracce seminando dubbi e interrogativi in qualche articolo su La Repubblica e in qualche pagina dei miei libri fin dal 2008. Poi mi sono concentrato sulla più grande impostura andata in scena in Sicilia nell’ultimo quarto di secolo: l’impostura di Confindustria siciliana.
Esattamente un anno fa ho scoperto, per esempio, che esisteva una zona franca della legalità in cui evidentemente ci sono gli abitanti più buoni e più onesti d’Italia, che hanno fortemente voluto un governatore condannato per mafia e un imprenditore che sarebbe stato qualche mese dopo indagato per mafia. La prima zona franca della legalità è nella mia città d’origine, a Caltanissetta, al centro della Sicilia. È la città dove è iniziata l’ascesa del cavaliere Antonello Montante, presidente di Confindustria Sicilia, presidente della locale camera di commercio, presidente di tutte le camere di commercio dell’isola, consigliere per la Banca d’Italia, delegato nazionale di Confindustria con delega alla legalità e designato anche un anno fa dal Ministro dell’interno Alfano membro dell’Agenzia nazionale dei beni confiscati. Questa è l’unica carica dalla quale si è al momento autosospeso per un’indagine a suo carico per concorso esterno in associazione mafiosa.
In questi dieci anni in Sicilia, in nome di un’assai incerta antimafia – a mio parere – si è instaurata una sorta di dittatura degli affari, un califfato che si estende in tutta la Sicilia, ma che è nato lì, a Caltanissetta, dove commistioni e, in alcuni casi, connivenze fra imprese e politica, imprese e stampa, imprese e forze di polizia, imprese e servizi di sicurezza, imprese e magistratura hanno ammorbato l’aria e fatto calare una cappa irrespirabile prima sulla città e poi su tutta l’isola.
Questa è la storia degli ultimi dieci anni, durante i quali in Sicilia ogni affare e ogni sopruso si è consumato intorno a due parole magiche, «legalità» e «antimafia», una legalità costruita a tavolino e un’antimafia che ha coperto operazioni politiche opache e favorito solo gruppi di interesse.
Dopo la stagione iniziata con la rivolta degli imprenditori del 2007 contro il racket, un’esperienza che personalmente ho seguito all’inizio con interesse e senza alcun pregiudizio perché pensavo che potesse portare a una svolta significativa, il trasformismo ha snaturato l’iniziale esperienza e una consorteria si è impadronita di tutto in Sicilia. Quel gruppo di imprenditori in nome dell’antimafia ha occupato – non ci sono precedenti in Sicilia dal secondo dopoguerra – ogni carica pubblica disponibile e ogni poltrona di sottogoverno disponibile. In nome dell’antimafia la Confindustria siciliana di Montante è diventata l’unico partito che nel Governo regionale siede ininterrottamente da sette anni, prima con Lombardo e Crocetta, con un proprio rappresentante. Ancora oggi, con Montante sotto indagine per concorso esterno, c’è un suo rappresentante.
Nelle sue molteplici vesti istituzionali Montante ha spesso offerto un sostegno a mezzi di informazione e a singoli giornalisti. Questa Commissione qualche mese fa ha ultimato una relazione molto interessante sulla stampa siciliana e le sue contiguità. A mio avviso, sarebbe opportuno aggiornare lo studio e l’analisi sull’informazione siciliana e i nuovi gruppi di potere dell’isola. Ho la sensazione che rispetto al passato non si siano fatti grandi passi in avanti.
Vi voglio fornire altri due elementi di riflessione. In questi ultimi dieci anni – ritengo che questo sia un dato agli atti dell’inchiesta giudiziaria sul cavaliere Montante – Confindustria siciliana, al di là dei proclami, dei protocolli di sicurezza e delle parate, non ha espulso un solo imprenditore accusato per reati di mafia. Non risulta agli atti dell’inchiesta giudiziaria che un solo imprenditore sia stato espulso per mafia dal 2005 ad oggi.
La seconda riflessione riguarda il famoso codice etico adottato da Confindustria in Sicilia e in tutt’Italia. I primi ad averlo violato sono gli stessi rappresentanti di Confindustria che l’hanno proposto. Il codice etico prevedeva, per esempio, dimissioni in caso di indagini a carico dei propri iscritti. Ci sono rappresentanti di Confindustria indagati per mafia in Sicilia, altri a processo per truffa, altri ancora rinviati a giudizio e poi condannati per aver pilotato appalti. Tutti, proprio tutti, sono ancora nel governo di Confindustria Sicilia, quella dei codici etici, delle regole e dei proclami solenni.
Dopo lo scandalo del vicepresidente nazionale Antonello Montante con delega alla legalità e la vergogna di quel Roberto Helg che faceva estorsioni da 100 mila euro – è stato condannato qualche mese fa – altre indagini hanno scoperto il doppio gioco di una cordata di imprenditori che a parole combatte la lotta legalitaria – è un’espressione coniata da loro; io non l’userei mai; parlano sempre di «lotta legalitaria» – ma che nei fatti si sta rivelando un gruppo di interesse che ha goduto scandalosamente anche di protezioni governative.
Ci sono indagini con provvedimenti giudiziari aggressivi per combine in appalti ANAS contro l’imprenditore Mimmo Costanzo, del gruppo Tecnis, imprenditore che faceva della legalità il suo fiore all’occhiello, a Catania. Ci sono indagini a Palermo sul presidente della Rete ferroviaria italiana Lo Bosco, anche lui arrestato, su un giro di tangenti e appalti. Lo Bosco è molto vicino a Montante e al Ministro dell’interno Alfano, lo stesso Ministro che aveva designato un anno fa Montante all’Agenzia dei beni confiscati.
Le inchieste giudiziarie stanno sommergendo di sospetti questa cordata, che a me sembra più opportuno chiamare rete. Loro sono sempre lì, al loro posto. Parlano di macchinazioni e di mandanti occulti, si autoassolvono e continuano a esibirsi come campioni di un’antimafia che ormai gode di una pessima reputazione. Comunque è un sistema che si è sgretolato o si sta sgretolando.
Ci sono imprenditori come Marco Venturi, presidente di Confindustria Centro Sicilia, che la scorsa estate, per paura credo – «Temo per la mia vita e per quella della mia famiglia» mi ha detto e poi si è rivolto ai magistrati – hanno deciso di raccontare cos’è il sistema Montante. Con Venturi c’è anche Alfonso Cicero, l’ex presidente dell’IRSAP, l’ente che gestisce tutti gli undici consorzi industriali della Sicilia. Consorzi industriali… affari. Credo proprio che su questo fronte ci saranno delle grandi sorprese.
Nonostante le indagini della magistratura a carico di Montante – i pubblici ministeri di Caltanissetta ipotizzano un rapporto continuativo con la cosa nostra siciliana dal 1990 ad oggi; stiamo parlando di ventisei anni – il presidente di Confindustria Squinzi continua a difendere Montante e lo lascia al suo posto, vicepresidente di Confindustria con delega alla legalità.
Montante è anche presidente delle camere di commercio siciliane. Non una sola presa di posizione, se non a suo favore, è arrivata in questi dodici mesi da parte di Ivan Lo Bello, presidente di Unioncamere nazionale, un altro degli imprenditori che nel 2007 erano stati promotori della cosiddetta rivolta siciliana. Unioncamere organizza convegni sulla legalità e firma protocolli di legalità in altre regioni italiane con associazioni antimafia, mentre pubblicamente non spende una sola parola sul caso siciliano.
Qui veniamo al mondo associativo e all’antimafia sociale. Da quando esiste l’antimafia moderna, ossia da circa una trentina d’anni, subito dopo l’omicidio del generale Carlo Alberto Dalla Chiesa, il 3 settembre 1982, l’antimafia non è mai stata così ubbidiente, cerimoniosa e attratta dal potere. Sopravvive fra liturgie e litanie e soprattutto grazie a un fiume di denaro. Tutto ciò che conquista lo status di antimafia certificata si trasforma in milioni o in decine di milioni di euro, in finanziamenti considerevoli a federazioni antiracket, in contributi per vivere la neve – tra le varie cose che ho trovato c’è anche una sciata antimafia a Folgaria, mi pare; non mi ricordo a quante decine di migliaia di euro ammonti il contributo – in uno spargimento di risorse economiche senza precedenti e nel più assoluto arbitrio.
Si tratta di un’antimafia sottomessa alle concessioni dei PON, i Programmi Operativi Nazionali di sicurezza del Ministero dell’interno. Questi PON, secondo me, necessitano di una verifica, di un monitoraggio sui soldi che vengono spesi e su quelli che non vengono spesi e tornano in Europa. Si tratta di cifre considerevoli, che non sempre prendono, secondo me, strade virtuose.
Si tratta di un’antimafia sottomessa alla benevolenza di funzionari del Ministero dell’istruzione, che, senza bando pubblico, per anni hanno distribuito milioni e forse anche decine di milioni a scuola e che poi smistavano quelle somme ad associazioni sul territorio sulla base di legami e patti.
La conservazione o l’estinzione di un’associazione antimafia, di un circolo intitolato a un poliziotto ucciso o a un bambino vittima del crimine, di uno sportello in chiusura o un osservatorio sui casalesi o i corleonesi, di un museo della ’ndrangheta è sempre appeso a un filo o a un canale economico. Così l’antimafia è diventata docile e addomesticata. Il patto non scritto è sempre: non disturbare mai il potente del momento e prendere i soldi.
Si tratta di un’antimafia ferma, in posa perenne, conformista, sempre pronta con la retorica a ricordare e a santificare i suoi eroi, ma soprattutto a non restare con le tasche vuote.
Si tratta di un’antimafia che è diventata consociativa. Non ci sono più zone franche nell’antimafia. Nelle piccole associazioni sparse in ogni angolo d’Italia e anche nelle associazioni più grandi e più rispettabili negli ultimi anni c’è stata una mutazione del dna. Alla denuncia si è preferito l’assalto agli incarichi e alle consulenze. L’associazione antimafia a volte è diventata un trampolino di lancio per carriere politiche.
Anche qui bisogna distinguere per non confondere, bisogna procedere passo dopo passo senza generalizzare, ma credo sia abbastanza evidente, almeno a mio parere, che l’antimafia abbia perduto il suo spirito originario. Molte associazioni non rappresentano più un’altra voce. È proprio in questo momento che qui in Italia si sente il bisogno di un’altra voce più che mai. C’è un’incapacità di intercettare o interpretare le trasformazioni criminali che sono in atto nel nostro Paese da parte delle associazioni antimafia.
Su mafia capitale ci sono associazioni antimafia che hanno balbettato, salvo poi costituirsi parte civile al processo. Questo è un altro capitolo dell’antimafia contemporanea: ci sono decine, anzi centinaia di associazioni che chiedono di costituirsi parte civile in ogni processo di mafia, di ’ndrangheta o di camorra. Io credo sia giusto che venga posto un limite. Ha senso che un’associazione si costituisca parte civile in un processo se quel processo ha contribuito a costruirlo con denunce, attraverso il lavoro dei suoi rappresentanti, accompagnando il percorso di imprenditori taglieggiati o collaboratori di giustizia. Altrimenti tutto diventa un baraccone.
Anche la stampa ha le sue colpe. Comincio da me, che è meglio. Quanti mostri dell’antimafia abbiamo creato in questi anni, quanti casi scomodi abbiamo scansato per non andare controcorrente, quante inchieste giudiziarie che non stavano in piedi abbiamo ignorato per quieto vivere e qualche volta anche per paura ? Non vi nascondo che in questi ultimi dodici mesi, da quando ho cominciato a occuparmi di quest’antimafia, ho avuto una vita complicata come non l’avevo da una trentina d’anni, quando mi occupavo di mafia a Palermo durante la stagione dei cadaveri eccellenti, nei primi anni Ottanta.
Concludo. La retorica dell’antimafia non serve più. La retorica distorce i fatti e li sotterra.
PRESIDENTE. Grazie per quello che non si può definire un intervento reticente, se posso usare questo termine.
ATTILIO BOLZONI. Trattandosi di una Commissione parlamentare, ho il dovere di dire la verità.
PRESIDENTE. Essendo una Commissione parlamentare, sarebbe stato abbastanza singolare se ci avesse detto meno di quello che ha scritto in questi mesi, oltre che magari in questi anni. Naturalmente, ci sono alcune affermazioni che riguardano persone o altro che la nostra Commissione è abituata a non lasciare a verbale senza approfondire. Credo che questo sia il nostro compito. Se qualche volta è successo, è perché ci è sfuggito, ma non certo per la volontà.
Pertanto, credo che quest’audizione ci darà lavoro. Non abbiamo dubbi. D’altra parte, l’abbiamo invitata per questo. Sapevamo che questa era un’audizione dalla quale avremmo ricavato piste di lavoro. Credo che da questo punto di vista anche immediatamente, senza ulteriori approfondimenti, ne abbiamo già individuate alcune.
Passiamo alle domande e agli approfondimenti con l’audito. Do la parola ai colleghi che intendano intervenire per porre quesiti o formulare osservazioni.
FRANCO MIRABELLI. Grazie, presidente. È evidente che molte delle cose che ha detto Bolzoni andranno approfondite. Alcune le sta approfondendo la magistratura. Mi pare che abbia fatto riferimento a diverse inchieste.
La prima domanda che mi viene – so che è superficiale, dopo questa illustrazione – è se esista l’antimafia. È evidente che questa illustrazione, almeno per quello che riguarda la Sicilia, descrive una situazione in cui l’antimafia con un compito reale di lotta alla criminalità organizzata avrebbe – o ha – lasciato il campo soltanto a opportunismi e a un utilizzo improprio dell’antimafia.
È una domanda seria perché il quadro che lei ci ha fatto è oggettivamente questo. Io non penso che sia esattamente così e credo che neanche lei pensi che sia esattamente così. È giusto, abbiamo chiesto a tutti i nostri interlocutori in quest’inchiesta di capire e segnalare l’uso improprio che si è fatto dell’antimafia, sapendo che l’antimafia è diventata mezzo anche di penetrazione per la mafia e scelta per autopromuovere pezzi di politica.
Tuttavia, l’antimafia è stata anche qualcosa di vero anche in Sicilia. Non penso che lei voglia demolire definitivamente esperienze importanti come quella dell’antiracket e come quella anche del momento in cui Confindustria siciliana ha scelto di mettersi in campo contro le mafie. Quelli sono due pezzi importanti della storia, che non credo vadano abbandonati.
Io credo – e su questo vorrei il suo contributo – che ci sia un problema, che abbiamo già verificato in altre audizioni. Il tema è che probabilmente c’è bisogno di ripensare che cos’è oggi il movimento antimafia e che cosa deve essere soprattutto, non solo cos’è.
Molte delle cose che ci ha detto comprendono anche molte cose positive, ma è evidente che il movimento antimafia nato dopo l’omicidio Dalla Chiesa e le stragi, che in quel momento ha avuto il massimo di forza, etica valoriale e mobilitazione, oggi un po’ si è perso. Di fronte a una criminalità organizzata che, sia al nord, sia al sud, predilige all’azione militare l’intervento sull’economia e la penetrazione economica, la percezione dell’opinione pubblica della presenza e della pericolosità della criminalità organizzata si è molto abbassata. Di fronte a tutto questo non siamo più in presenza di un movimento di massa, ragion per cui forse c’è bisogno di ripensare gli obiettivi.
In merito le chiedevo un contributo, stante il fatto che su alcune delle questioni che lei ha riferito ci possono essere opinioni diverse. Su molte di quelle questioni sarà poi la magistratura a dirci che cosa è vero e che cosa è falso. Se posso permettermi, su alcune cose l’ho trovata un po’ tranchant, proprio perché credo che alcune di quelle esperienze siano nate in maniera molto positiva, sull’onda di quel movimento antimafia serio. Credo che questa sia una riflessione da fare.
PRESIDENTE. Preferisce rispondere domanda per domanda ? Non siamo tantissimi.
ATTILIO BOLZONI. Penso nella mia breve relazione di aver sottolineato, quando è nato quel movimento, di averlo guardato con estremo interesse. Mi sembrava una cosa importante, che poteva segnare una svolta in Sicilia. L’ho guardato, quindi, senza alcun pregiudizio. Ho fatto esempi precisi. Per esempio, non ho parlato dell’antimafia giudiziaria o poliziesca, che in Sicilia funziona perfettamente. Per la prima volta nella storia d’Italia dopo le stragi, la repressione poliziesca…
FRANCO MIRABELLI. Scusi, stavo parlando dell’antimafia sociale. Sull’azione della magistratura e della polizia non c’è dubbio. Tuttavia, che non esista più l’antimafia sociale…
PRESIDENTE. Abbiamo avuto qualche problemino anche noi.
FRANCO MIRABELLI. Va bene, sì.
ATTILIO BOLZONI. Volevo completare il discorso. Studiando un po’ la storia delle mafie e soprattutto della cosa nostra, ho visto che solo dopo le stragi abbiamo avuto una repressione continua e non a corrente alternata su questo fronte. Ho letto qualche giorno fa l’audizione del professor Lupo, il quale diceva delle cose estremamente interessanti.
Forse, però, occorre aggiungere qualcosa. Lui dice che lo Stato ha vinto sul fronte della repressione con quella mafia. Lo Stato ha vinto per una semplice ragione: perché, mentre stiamo parlando ogni settimana – basta leggere i giornali – c’è una macchina investigativa, una macchina repressiva che continua a intervenire. C’è una rigenerazione nelle borgate di Palermo, di Catania, di Gela e nel trapanese che, se non ci fosse questa macchina imponente dello Stato – si tratta di un’antimafia giudiziaria e poliziesca che funziona, eccome se funziona – avverrebbe continuamente. Questa gente si rigenera continuamente. Mi riferivo nel mio intervento proprio a Confindustria Sicilia e a quell’esperienza, nata così bene e finita così male. Questa è la mia opinione.
Per quanto riguarda, per esempio, l’antimafia sociale, è nata in Sicilia trent’anni fa. L’antimafia è nata in Sicilia storicamente anche quando non si chiamava antimafia. Quando i contadini nel dopoguerra venivano uccisi nei campi mentre occupavano le terre, non si chiamava antimafia, ma era antimafia. È ovvio.
Nel linguaggio comune la parola «antimafia» è entrata nel 1963, con l’istituzione della Commissione parlamentare antimafia. L’antimafia moderna, come ho detto, è nata nel 1982 ed è nata a Palermo. I primi coordinamenti antimafia sono nati a Palermo dopo Dalla Chiesa, La Torre, Costa, Chinnici, Giuliano, dopo i carabinieri uccisi, i giornalisti uccisi, i sacerdoti uccisi. Mi riferivo solo alle cose che ho detto. Non volevo generalizzare.
L’antimafia sociale negli ultimi anni in Sicilia in generale, secondo me, non si è distinta né nel bene, né nel male. Proprio in Sicilia non si è distinta né nel bene, né nel male. Il fenomeno che ho attenzionato è quello di Confindustria siciliana, che, in nome di una presunta legalità, si è impadronita di un’isola.
FRANCESCO MOLINARI. Naturalmente la ringrazio perché continua a dimostrare quel coraggio che, come ci ha ricordato, le è riconosciuto per le battaglie che fece con i suoi articoli quando la mafia, quella militare, era veramente dominante in ampi settori certamente della Sicilia e non solo, una battaglia di coraggio che continua a dimostrare anche con questo tentativo di squarciare questo velo di ipocrisia che si è costruito intorno alla cosiddetta antimafia.
Credo che questa Commissione abbia avuto il coraggio di affrontare quest’argomento abbastanza scomodo e non facile, perché i confini in cui c’è il tentativo anche di delegittimazione di un determinata antimafia sono sempre in agguato. Credo anche, però, che il valore della trasparenza sia il valore in assoluto su cui si può costruire e che la democrazia ha come unico baluardo nei confronti dei poteri occulti che continuamente cercano di attaccarla da tutti i punti di vista.
La domanda che le faccio, al di là di queste chiacchiere, è nel mondo dell’informazione che tipo di rapporto ha lei e che scontri ha con chi, per esempio, su quest’antimafia si è costruito un nome e una rispettabilità e ha dimenticato il ruolo fondamentale, che è quello di essere continuamente lì a incalzare in continuazione il «potere» che cerca di occupare gli spazi che lasciano altri.
Mi interessa molto sapere che cosa ha vissuto lei in Sicilia, visto che è un campione di quella originaria, e come si è trovato a confrontarsi nel mondo dell’informazione in questo momento.
ATTILIO BOLZONI. Mi sono trovato abbastanza isolato. Mi sono trovato abbastanza isolato perché intorno a tutte queste vicende, se si esclude l’intervento di questa Commissione parlamentare nel marzo scorso, quando la presidente ha annunciato che la Commissione parlamentare antimafia avrebbe aperto un’indagine sull’antimafia – sembra paradossale, ma ci ritroviamo tutti qui un anno dopo – l’informazione sia locale, anzi soprattutto locale, sia nazionale… L’informazione nazionale è stata molto distratta per lungo tempo. L’informazione locale non posso definirla distratta perché ci sono anche delle indagini in corso su commistioni tra quel gruppo cui facevo riferimento e rappresentanti della stampa che hanno ricevuto contributi sostanziosi. Sono documenti ufficiali, quindi non svelo nulla di segreto.
Il dato più evidente è quello che hanno scritto nel corso di quest’anno: nulla. È molto interessante leggere alcuni giornali locali in Sicilia. Chi è allenato a leggere quei giornali sa che alcune volte sono pieni di notizie, ma non sono le notizie che ci sono, sono le notizie che non ci sono le più importanti. Se uno è allenato a decifrare un determinato linguaggio, riesce a capire che tipo di informazione si fa.
Per esempio, l’altro giorno c’è stata l’inaugurazione dell’anno giudiziario. La mattina presto leggo tutti i giornali locali siciliani e ho visto che ci sono dei giornali locali siciliani che non hanno dedicato uno spazio adeguato alla relazione del presidente della corte di appello di Caltanissetta che affrontava la vicenda che stiamo affrontando noi questa sera in quest’Aula. Non hanno riportato le notizie con il dovuto risalto, come sarebbe stato giusto. Questo è un esempio.
SALVATORE TORRISI. Do atto al dottor Bolzoni del rigore intellettuale, della forza e della novità delle argomentazioni messe in campo, che sono importanti per questa Commissione. Mi ponevo rispetto alle sue valutazioni, che rappresentano un punto importante, come ha segnalato il presidente, alcune riflessioni. Forse lei qualcosa l’ha già detto. Il rischio qual è ? È che attorno a questa polemica, o meglio a questi giusti rilievi sull’antimafia, il messaggio che passi è che, invece, sulla lotta alla mafia ci sia un arretramento.
Lei ha una valutazione sul fronte della lotta alla mafia nella sua interezza, anche attraverso gli organi di polizia giudiziaria cui faceva riferimento ? Ci sono passi in avanti ? Qual è la sua valutazione ? Noi abbiamo raccolto su questo punto le posizioni autorevoli del procuratore della Repubblica e del procuratore nazionale antimafia. Mi interessava capire da lei qual è il punto sul fronte della lotta alla mafia.
Sulla questione, invece, della crisi dell’antimafia – penso di un pezzo di antimafia – volevo capire una cosa. Lei ha segnalato alcune criticità, che riguardano soltanto alcuni punti. Volevo che ci desse anche una valutazione più generale sul fronte dell’antimafia e delle sue criticità. Ho apprezzato molto – non la conoscevo, ma leggo i suoi articoli con molto interesse – il suo rigore e, poiché la considero persona intellettualmente molto rigorosa e onestissima, così come lei ha illustrato i punti negativi dell’antimafia e le sue debolezze, le chiederei quali sono, invece, gli aspetti positivi dell’antimafia, soprattutto siciliana.
Sulle criticità che ha indicato mi chiedevo se, secondo lei, questa vicenda è stata organizzata. C’è stata proprio una strategia dell’infiltrazione ? Questo sarebbe di una gravità… ci metterebbe grandissima preoccupazione. Oppure si tratta di comportamenti dei singoli, che hanno occupato posizioni e poi da quelle posizioni hanno mantenuto i rapporti che avevano prima e hanno continuato a mantenerli ? Non ho nulla a che spartire con Confindustria Sicilia, ma, poiché lei parla di Confindustria Sicilia…
ATTILIO BOLZONI. Dei suoi vertici.
SALVATORE TORRISI. Lo dico proprio rispettando la sua onestà: forse dovremmo – lo dico anche per la mia professionalità – distinguere le responsabilità sul piano personale. Se facciamo di tutta l’erba un fascio, il rischio è che delegittimiamo interi settori, che tra l’altro sono settori importanti della nostra Sicilia. Se diciamo che tutta Confindustria ha partecipato a una strategia di questo tipo… Sono fuori da quel mondo, non ho alcun tipo di rapporto. Mi interessava capire. Probabilmente lei ha più elementi di noi, ma a me sembra che le responsabilità siano sempre personali.
Proprio seguendo il ragionamento che fa lei, che è molto rigoroso, volevo capire se, a suo giudizio, c’è un sistema, oppure se siamo in presenza di responsabilità personali che hanno avuto poi magari connivenze con i silenzi di altri imprenditori, co nsiderato che non ci sono state prese di posizioni di differenziazione.
Probabilmente dovremmo fare anche una differenza tra chi, esponenti di queste realtà e di questi mondi che ha citato, è indagato per collusione con la mafia e chi, invece, è indagato per reati contro la pubblica amministrazione. Siamo in presenza di fatti molto diversi.
Grazie.
ATTILIO BOLZONI. Grazie a lei. Prima accennavo all’azione repressiva dello Stato dal 1992 a oggi come un unicum nella storia d’Italia. Non è mai accaduto che prima delle stragi di Capaci e di via D’Amelio lo Stato reagisse in maniera così decisa, forte e importante. Non ha mai smesso un secondo in ventiquattro anni, mai – si tratta di un risultato, secondo me, straordinario – e continua a non farlo. Ritengo che la nostra macchina investigativa in Italia sia la migliore del mondo. Su questo fronte possiamo solo essere veramente molto contenti e soddisfatti.
Per quanto riguarda, invece, le indagini e le analisi sul fenomeno delle mafie negli ultimi anni – penso alle mafie non intese nella loro struttura militare sul territorio – credo che negli ultimi anni ci siano state delle gravi deficienze, molte pigrizie investigative e molte analisi precipitose.
In questi giorni ho letto l’ultimo rapporto semestrale della DIA. Oggi ne ho scritto qualcosa sul giornale, su La Repubblica. Ho trovato una bella sorpresa: ho trovato finalmente l’odore di qualcosa di nuovo, uno sforzo che, secondo me, rappresenta una svolta importante. Finalmente non siamo più fermi al 1992, ai Riina, ai Ganci, ai Bagarella, ai Sandokan, ai Peppe Tiradritto, a tutte quelle facce sconce e quei nomi impronunciabili che ci siamo sentiti ripetere per vent’anni. Credo che da un po’ di tempo – da poco, ma da un po’ – ci sia un’attenzione diversa e che si stia muovendo qualcosa di estremamente positivo per intercettare queste evoluzioni del fenomeno mafioso.
Quella mafia delle stragi – anche noi giornalisti, naturalmente, andiamo per luoghi comuni – è una mafia che non è mai esistita, nel senso che la mafia è quella che c’era prima e quella che c’è oggi. La stagione dei corleonesi è un’anomalia di soli diciotto anni nella storia della mafia. La mafia ha una storia di quasi 160 anni. La sua storia coincide con l’unità d’Italia. La stagione delle stragi è un’assoluta anomalia. Tutti i protagonisti di quella stagione, tranne uno, sono con i loro figli, nipoti, fratelli e padri a marcire nei bracci del 41-bis e saranno marchiati come i cavalli per sette generazioni. Quella è una mafia ormai persa, che non esiste più.
Ecco perché ritengo che ci siano dei segnali importanti. Per esempio, questo rapporto che ho letto in questi giorni sta cercando qualcosa di nuovo ed è un segnale in controtendenza rispetto a quanto è accaduto negli ultimi anni, quando, ripeto, ci sono state, secondo me, delle pigrizie investigative molto forti. C’è, quindi, qualcosa che funziona. C’è sempre qualcosa che funziona nello Stato.
Per quanto riguarda che cosa funziona dell’antimafia, in questi giorni ho sentito tanto parlare sui giornali di Libera. I giornali vanno spesso a ruota libera. Per esempio, ho sentito parlare di holding di beni confiscati e di questa potenza strepitosa che è Libera. È venuto qui Ciotti e ha spiegato – lo so perché conosco la materia – che non è una holding. Per me è un esempio virtuosissimo quello dei beni confiscati. È unico al mondo. Non so se siano sei od otto le cooperative che non ha Libera, ma che accompagna – forse sono undici, ma comunque sono poche – ma sono un esempio virtuosissimo, che è stato costruito in diciotto anni di storia.
Un altro esempio per me importante è tutto l’aspetto che riguarda la memoria. Libera ha raccolto questa cosa fin dall’inizio, fin dalla sua fondazione. Questo non significa che Libera non abbia problemi. Ha le sue criticità, che sono anche, secondo me, criticità importanti, ma non sono quelle. Riguardano sempre l’incapacità di leggere la realtà.
Libera ha smarrito un po’ la decisione che aveva all’inizio. Ha un gruppo dirigente alla ricerca di incarichi e di consulenze più che di cercare di capire. In alcuni casi non rappresenta un buon esempio per le tante realtà di Libera molto vive e interessanti sparse sul territorio italiano.
Quando mi chiede se c’è qualcosa che funziona, certo che c’è qualcosa che funziona. Anche nelle grandi associazioni dove c’è tanto che funziona, però, c’è qualcosa da rivedere.
La terza domanda non me la ricordo, mi perdoni.
PRESIDENTE. Se posso sintetizzare, è stata una strategia o si tratta degli errori di qualcuno ?
ATTILIO BOLZONI. Io sono abituato a scrivere e a parlare con elementi di fatto. Tutte le cose che dico posso dimostrarle. Non so se si tratti di una strategia o se casualmente la bellissima esperienza del 2007 si sia trasformata in un’altra cosa.
Quando le parlo di Confindustria Sicilia, le parlo di Confindustria Sicilia perché è tutto un blocco che ha fatto blocco intorno al suo presidente. Non parlo certo degli imprenditori siciliani. Me ne guarderei bene. Parlo di un blocco granitico che ha fatto blocco intorno al suo presidente.
FRANCESCO D’UVA. Grazie, dottor Bolzoni, per essere qui. È un piacere. Sulla situazione antimafia in parte ha già risposto. Di fatto stiamo dicendo che l’associazionismo antimafia in qualche modo ha perso un po’ il suo senso di esistere, almeno con riferimento ad alcuni tipi di associazionismo antimafia.
Abbiamo già parlato di Libera. A questo punto, giusto per parità, le altre associazioni antimafia o antiracket, quelle più grandi… Io sono di origine orlandina e sono cresciuto con il mito dell’ACIO. Effettivamente mi piace tantissimo. Mi chiedo, giustamente, come funziona, per esempio, questo.
Confindustria ha provato in qualche modo – abbiamo detto che provava ad avvicinarsi alle associazioni antimafia – ad avvicinarsi ad Addiopizzo, al FAI, all’ACIO, ad AGISA, o a Libera stessa ? Mi chiedevo che legami intercorressero tra questi soggetti.
Riguardo ai contributi ai giornali, se vuole dirci quali sono questi giornali… Sono tutti scritti, ma, se vogliamo dirlo anche qui, perché a me sfuggono…
ATTILIO BOLZONI. I giornali di Palermo e di Catania, soprattutto quello di Palermo.
FRANCESCO D’UVA. Grazie. Qual è la situazione, volendo fare un paragone tra la Confindustria siciliana e quella calabrese ? In qualche modo, a questo punto, dobbiamo anche rivedere quella che è stata una specie di primavera della Confindustria siciliana. Dobbiamo rivederla. Penso a quella calabrese, che non ha avuto nemmeno quella primavera.
Che lei sappia, invece, qual è la differenza tra i due tipi di Confindustria ? Noi abbiamo fatto la missione in Calabria, la prima che abbiamo svolto in questa legislatura, a Reggio Calabria. Effettivamente non mi ricordo un impegno uguale in Calabria rispetto a quello siciliano, ma magari ricordo male. Sa se ci sono giornali calabresi che hanno contributi da Confindustria calabrese ? Ne è al corrente ? Lei è siciliano come me. È di Caltanissetta, mentre io sono di Messina. Si tratta di due città che vivono un problema serissimo. Lei non è del settore, ma che ne pensa dell’accorpamento delle corti d’appello, che dovrebbero – sono pronto a correggermi, nel caso – portare via con sé anche DDA, tribunale minorile e avvocatura di Stato ? Quello che mi preme di più, però, è l’accorpamento anche della DDA. Quanto ritiene che possa essere dannoso questo accorpamento sia a Caltanissetta, sia a Messina ?
Grazie.
ATTILIO BOLZONI. Innanzitutto mi ero dimenticato di dire una cosa a proposito di tutte le associazioni antimafia: Libera è l’unica che ha il suo bilancio pubblico, il che già non è poco. Addiopizzo non lo so. Anche Addiopizzo ?
PRESIDENTE. A noi risulta anche il FAI.
ATTILIO BOLZONI. Anche il FAI ? Fino all’anno scorso no. Sono un po’ fermo, allora.
PRESIDENTE. Quelli che sono stati forniti a noi non credo fossero documenti segreti.
ATTILIO BOLZONI. Leggo sul sito web quelli di Libera.
PRESIDENTE. A noi sembrava che fosse così. Se mi sbaglio…
ATTILIO BOLZONI. Aprendo i vari siti, Libera presenta subito il suo.
PRESIDENTE. Non è per togliere i meriti di Libera.
ATTILIO BOLZONI. Io ho scritto il primo articolo su Confindustria Sicilia e su Montante il 9 febbraio 2015. Uno dei primi attestati di stima e solidarietà esterni è venuto dal FAI, dalla Federazione antiracket. Un altro è venuto dal sindaco di Catania, con varie sfumature, un altro dalla Legacoop e altri a seguire. Mi ricordo questi tre. Credo che i rapporti ci siano stati. Firmano protocolli di legalità in varie regioni e in varie province d’Italia, ma questo non significa niente.
FRANCESCO D’UVA. A Montante ?
ATTILIO BOLZONI. A Montante, sì. È successo il giorno in cui per la prima volta abbiamo pubblicato che era sotto indagine per concorso esterno in associazione mafiosa. Poi le solidarietà sono svanite ed è rimasta quella di Squinzi.
Il problema è che, se sono associazioni antiracket e associazioni antimafia, dovrebbero avere la sensibilità, il «naso», per capire se ci sono delle situazioni in cui si può stare insieme o non stare insieme. Facevo l’esempio prima di Unioncamere che fa protocolli di legalità. Mi risulta che li faccia in Lombardia e che adesso li sta facendo in Abruzzo con Libera. Nello stesso tempo, però, Unioncamere è rappresentata da Montante in Sicilia. Credo che anche questo contribuisca a creare confusione e corto circuito.
Quando parlavo, all’inizio della mia relazione, di punti di contatto anche indiretti, questo non significa che Libera abbia nulla a che spartire con quella Confindustria, per carità. So che la situazione di Confindustria Calabria ha una storia profondamente diversa da quella di Confindustria Sicilia. Non c’è stata quella primavera e so che gli stessi rappresentanti di Confindustria, in particolare il presidente Lo Bello, hanno avuto degli scontri violentissimi diversi anni fa con i rappresentanti di Confindustria Calabria.
La Calabria, signori, è un altro mondo rispetto alla Sicilia. Le divide uno stretto di un chilometro e 200 metri, ma stiamo parlando di due continenti diversi. Non è che il sud sia tutto uguale. La Sicilia è un altro mondo. La Sicilia poi è fatta di tante Sicilie. Per esempio, Trapani è un altro mondo rispetto a Palermo. A Trapani ci sono le forme più sofisticate di mafia di tutta la Sicilia.
Sto facendo un’indagine su alcuni personaggi che vent’anni fa si occupavano di sanità. Gli stessi personaggi dopo dieci anni si sono occupati di rifiuti e oggi si occupano di accoglienza. Sono le stesse persone, non gli stessi gruppi. Ogni tanto vengono pizzicati, qualcuno patteggia, riescono dalla galera e ritornano. Trapani è un osservatorio molto particolare per capire che cosa accadrà poi nelle altre province siciliane.
Dicevo che non so dei rapporti tra la stampa calabrese e Confindustria. Non so niente. So dei rapporti tra Confindustria Sicilia e i giornali e i giornalisti siciliani perché in alcune camere di commercio hanno pubblicato tutti i contributi offerti, semplicemente per questo.
Per quanto riguarda quello delle corti d’appello, certo è un problema. Penso soprattutto a Caltanissetta, che è una piccola grande capitale giudiziaria, come lei sa, da sempre, perché si occupa di tutte le vicende che riguardano i magistrati dell’altro distretto, quello di Palermo. La soppressione della corte d’appello e, quindi, poi della DDA e di tutto sarebbe un disastro.
Di Messina, onestamente, non so granché.
PRESIDENTE. La Commissione vigilerà sulle corti d’appello. L’abbiamo promesso.
CELESTE COSTANTINO. Ho ascoltato con molta attenzione la sua relazione e, purtroppo, condivido con profonda preoccupazione molti giudizi che ha espresso. Penso che la crisi che ci ha raccontato di questo pezzo di mondo dell’antimafia sociale – mi è capitato di dirlo spesso in questa Commissione – sia sicuramente per buona parte legata alla responsabilità che ha avuto la politica nel delegare alcune delle proprie funzioni al mondo dell’antimafia sociale, un po’ per comodità, un po’ per credibilità e un po’ per incapacità.
Vorrei parlare un po’ delle responsabilità che ha la sua categoria, il giornalismo. Lei giustamente diceva che c’è un antimafia in qualche modo ormai accreditata. La sensazione che si ha è che il giornalismo si occupi esattamente solo ed esclusivamente dell’antimafia ricca e certificata. È, quindi, un cane che si morde la coda. Se poi sono quelle associazioni ad avere sempre accesso ai soldi è perché ormai c’è questo riconoscimento pubblico, sociale e politico che viene loro affidato.
Pensavo anche ad alcuni esempi che ha fatto rispetto a mafia capitale. Sicuramente in una città che all’improvviso si scopre mafiosa – anche adesso, in realtà, non si ha neanche il coraggio di dirlo fino in fondo – probabilmente alcune piccole realtà hanno cercato di denunciare queste cose anche in tempi non sospetti, ma non hanno avuto alcun tipo di credibilità. Questo perché c’è un giornalismo che non è interessato a raccontare queste piccole esperienze, ma che ha bisogno di fare sempre riferimento o a grandi associazioni o a grandi nomi, tra cui magistrati, scrittori e figure già accreditate in questo mondo.
Forse questo in misura diversa vale anche per la Calabria, che un racconto così forte non l’ha avuto, perché indubbiamente non viene dalla stessa esperienza siciliana. Anche quando si è provato a fare dei piccoli passi in avanti, non c’è stato nessuno che avesse la capacità da un punto di vista nazionale di raccontare quelle esperienze.
Le volevo chiedere un giudizio non sul giornalismo antimafia, ma forse semplicemente sul giornalismo d’inchiesta in relazione alla capacità di stare di più sui territori e di raccontare effettivamente queste storie.
Vorrei sapere se c’è un’oligarchia o un monopolio dell’antimafia in questo Paese e se forse oggi non sia il caso di incominciare a bandire all’interno degli statuti delle associazioni la parola «antimafia». Forse siamo a un punto tale che fare antimafia sociale si può senza dare questo tipo di connotazione. Forse siamo arrivati al punto che riconosciamo quali sono i guasti che vengono prodotti e dobbiamo provare a fare un ragionamento che non è di settore, ma che abbraccia l’esistente con uno sguardo antimafia come elemento di precondizione e non come obiettivo e finalità dell’azione politica associativa che si mette in campo.
ATTILIO BOLZONI. C’è una bellissima esperienza proprio in Calabria che va nella direzione che lei auspica, che è «Reggio Non Tace». Non so se lei conosce questo movimento di questo padre gesuita. Li ho conosciuti da poco tempo, da qualche mese. Mi riprometto di ritornare a Reggio. È un’esperienza molto forte. Credo che loro vadano in quella direzione.
Sono stato due giorni con loro e non mi hanno mai parlato… La parola «antimafia» non l’ho sentita. Mi hanno fatto vedere le cose che facevano nei quartieri, mi hanno portato in giro, mi hanno spiegato come lavorano e soprattutto la cosa che mi è piaciuta molto è che erano tutti volontari. Non si parlava di soldi. Ho scoperto, con colpevole ritardo, questa realtà tra la fine dell’anno scorso e l’inizio di questo gennaio.
Quanto alla stampa, noi giornalisti non siamo granché, alcune volte. Raccontare la mafia è più facile che raccontare l’antimafia, o, meglio, raccontare la mafia era facile negli anni Ottanta con i morti a terra, o negli anni Novanta con le stragi. Era facile negli anni Ottanta, quando i boss erano chiusi nei bunker e nelle gabbie all’Ucciardone o a Poggioreale.
Raccontare la mafia di oggi è difficilissimo. Ho un’amica che è una grandissima fotografa, che si chiama Letizia Battaglia. Ha appena compiuto ottant’anni. Ogni volta che la vedo a Palermo con la sua Nikon a tracolla mi dice: «Come la fotografo la mafia ?». Sorridendo, le rispondo: «Guarda, l’intelligenza collettiva è in quel palazzo là. È il palazzo della regione siciliana – scusate, è una battuta che faccio sempre quella sull’intelligenza collettiva di cosa nostra – oppure vai a Milano davanti alla Borsa, ma non puoi fare sempre la stessa fotografia. O vai in alcuni supermercati dove riciclano i soldi».
Non è facile raccontare la mafia. Raccontare l’antimafia è ancora più difficile. Si può raccontare, per esempio, nei campi di Libera, una volta. Uno va nei campi. Come la racconti, però, l’antimafia ? È veramente difficile.
È vero, però, che i riferimenti sono sempre gli stessi. Infatti, dopo aver conosciuto questa esperienza calabrese, ho pensato in queste settimane a come posso andare a raccontare loro a Reggio Calabria e trasformare la loro esperienza in un buon racconto per il mio giornale. Non è facile.
CELESTE COSTANTINO. Per una mancanza di spazio ?
ATTILIO BOLZONI. No, non è una mancanza di spazio. Si tratta di riuscire a trasformare un’esperienza così importante in un articolo, in un racconto, in qualcosa che le persone possano leggere. Si tratta di avere un’emozione che arrivi alle persone che leggono qualcosa. Non è un esercizio facile.
Forse sono stato poco chiaro, onorevole.
CELESTE COSTANTINO. Prima lei ha citato il museo della ’ndrangheta. Magari chi non conosce la Calabria non sa che cosa è successo rispetto a quello. C’è un’indagine in corso e non è l’unica esperienza calabrese che sia caduta in questo meccanismo.
La domanda era come il giornalismo oggi si faccia carico di raccontare delle esperienze che magari non hanno ufficialmente la finalità di definirsi antimafia, ma che fanno un lavoro antimafia all’interno dei territori. Penso che oggi dire «antimafia» non sia sufficiente a immaginare un percorso di quel tipo.
Eccetto per le organizzazioni storiche – giustamente lo diceva prima in premessa per Libera, parlando del lavoro della memoria, del lavoro dei familiari, del lavoro fatto sui beni confiscati – escludendo questa dimensione qui, c’è il tema della denuncia, che però va a crollare nel discorso che facevo io prima. Se le cose vengono fatte da gruppi che non sono già accreditati in quell’ambiente, non hanno credibilità, non vengono prese in considerazione. Oppure c’è il lavoro prettamente sociale che si può fare all’interno di un territorio in cui si prova a togliere spazio alle mafie producendo un lavoro di carattere sociale.
Reggio non tace da questo punto di vista, secondo me, non è proprio l’esempio più calzante, ma sicuramente oggi bisognerebbe riscrivere anche una geografia dell’antimafia attraverso questa lente, perché c’è qualcosa. Il corto circuito, al netto della responsabilità della politica, delle persone che l’hanno fatta e delle infiltrazioni che abbiamo registrato in questi anni all’interno di quel mondo, c’è. C’è un elemento che è saltato. C’è qualcosa che non funziona più nella semplice dichiarazione di intenti dell’antimafia. Siamo capaci di fare questo passo in avanti e di elaborare anche un concetto nuovo e diverso di antimafia ? Mi sembra che si sia creato uno stallo di questa natura, che riguarda che cosa sia oggi fare antimafia in questo Paese, se non le dimensioni più settoriali come l’antiracket, dove ci sono uno sportello legale e una dimensione più specifica di risposta a un problema.
Invece, nel mare magnum dell’antimafia c’è anche la sciata. Vi rientra praticamente tutto. Io non sono assolutamente favorevole all’idea che il lavoro vero sociale che viene svolto all’interno di un territorio sia lavoro volontario, o che il volontariato possa essere l’antidoto per cadere in questo meccanismo. Penso, invece, che un lavoro fatto bene debba avere anche un sostegno di carattere economico da parte dello Stato. Il punto è il controllo su questo.
ATTILIO BOLZONI. Per risponderle, fare, per esempio, un bel racconto su un imprenditore calabrese che mette su una sua azienda con tanta fatica e riesce a creare una bellissima realtà in un posto abbandonato da tutti sarebbe fare un bellissimo servizio di antimafia su un personaggio antimafia senza mai nominare la parola «antimafia». Questo si potrebbe fare. Forse sono riuscito sintetizzare.
ANDREA VECCHIO. Credo di poterti dare del tu perché ci conosciamo da tanto tempo.
ATTILIO BOLZONI. Da quando ti bruciavano gli escavatori.
ANDREA VECCHIO. Insieme abbiamo vissuto il 2007. Ricordo che conoscevo Lo Bello perché era a Catania, ma noi a Catania diciamo che «Un jiditu all’acqua fridda non gliel’ha mai messo».
PRESIDENTE. Non l’abbiamo capita.
ANDREA VECCHIO. Un dito per tastare se l’acqua fosse fredda non l’ha mai immerso in una bacinella.
Avevo sentito parlare di Montante perché stava facendo quest’arrampicata su Confindustria. In quella vicenda – ci siamo conosciuti in quell’occasione – mi hanno bruciato quattro escavatori in quattro giorni consecutivi a 150 chilometri di distanza l’uno dall’altro.
È stato un evento molto spettacolare in Sicilia. L’hanno immediatamente colto sia Lo Bello, sia il presidente di Confindustria Catania Scaccia, i quali hanno litigato da impazzire per chi dovesse stare in prima fila. Io sono basso di statura e mi hanno messo un poco dietro. Non ci tengo, però, ad apparire. A me piace essere.
Mi hanno portato a Caltanissetta mi pare il 29 o 30 settembre. A Caltanissetta ho conosciuto Marco Venturi. Questi soggetti erano paladini antimafia perché dietro le porte delle loro case avevano trovato due teste d’agnello, una in una casa e un’altra in un’altra casa. La fatica massima che hanno dovuto fare le loro mogli è stata raccogliere quella testa, buttarla nella spazzatura e pulire il davanzale della porta. Questa è stata la fatica massima. Io, invece, avevo subìto danni per circa 600-700 mila euro solo in quella tornata. Loro hanno enfatizzato la mia figura e quello che era capitato a me, appropriandosene. Dopo una settimana loro erano su tutti i giornali e io ero a casa mia.
Io non ci tenevo a essere sui giornali, ma credo che da quel bluff sia nata quest’antimafia. Sono delle persone capacissime, soprattutto nella capacità di comunicare. Tu li conosci molto bene, sia Lo Bello, sia Montante. Hanno un’eccezionale capacità di comunicare. Si sono appropriati di questo fatto e hanno costruito una carriera. Lo Bello in campo nazionale non era ancora nessuno e neanche Montante era nessuno. Costruendo questa strategia e questa grande immagine partendo dal 2007, hanno scalato Confindustria nazionale. Adesso è presidente di Unioncamere. Hanno costruito delle carriere su questi fatti.
Sono l’opinione pubblica e la politica che si fanno distrarre facilmente da questi imbonitori altamente professionali. La mia domanda, alla fine, è: come vedi tu questa vicenda, avendola vissuta insieme a noi in quel periodo ?
Poi volevo chiederti di Addiopizzo. Secondo te, Addiopizzo è un’associazione pulita ? Questi ragazzi sono puliti ?
PRESIDENTE. Vorrei fornire una notizia sui bilanci: sono pubblici dal 2010 quelli di Addiopizzo e quanto meno, con la ricerca immediata di questi minuti, abbiamo trovato dal 2013 e 2014 per il FAI. Ci teniamo a precisarlo. Poiché ci avevamo già fatto un lavoretto, se ci fosse sfuggita questa cosa…
ATTILIO BOLZONI. Ho guardato sui siti.
L’osservazione del senatore è molto interessante perché nel corso del 2015, a un certo punto della vicenda, l’imprenditore Marco Venturi e Alfonso Cicero, il direttore dell’IRSAP, mi hanno cercato. Eravamo a fine luglio o ad agosto. Erano terrorizzati e mi hanno cercato. Mi hanno voluto incontrare in luoghi segreti perché avevano paura di incontrarmi al giornale e a casa. Non li ho incontrati a casa loro in Sicilia, ma mi hanno portato con la macchina in altri posti.
Erano davvero terrorizzati e hanno cominciato a raccontarmi una serie di cose su questo sistema siciliano di Confindustria. Una delle prime cose che mi hanno detto era proprio questa: «Hanno utilizzato, soprattutto per quanto riguarda il lavoro oscuro quotidiano di Cicero, il nostro lavoro e la nostra esposizione per mettersi in mostra».
Per esempio, non so se posso fornire questa notizia…
PRESIDENTE. Vuole segretare ?
ATTILIO BOLZONI. Non lo so, onestamente. L’altro giorno hanno fatto un blitz in una delle tante case di Montante e hanno sequestrato non so che cosa. Il suo avvocato ha annunciato che ha un memoriale. Il memoriale di Montante ce l’ho da diversi mesi perché me lo sono procurato.
In quel memoriale di 420 pagine, 380 pagine erano su Cicero. Utilizzava tutte le attività di Cicero pubblicamente e all’interno del gruppo, nello stesso tempo, lo isolava. Tutta l’attività legalitaria che faceva Cicero all’IRSAP pubblicamente veniva da lui utilizzata, ma dentro il gruppo Cicero veniva isolato. Questo mi hanno raccontato i due imprenditori. Credo che l’abbiano raccontato poi ai pubblici ministeri.
La domanda che mi ha fatto, senatore, mi ha stimolato questi ricordi. Per esempio, c’è un episodio molto singolare che mi piace ricordare. Credo sia avvenuto nell’ottobre o nel novembre del 2013. È stato convocato a Caltanissetta il comitato per l’ordine pubblico e la sicurezza nazionale. Non mi ricordo se fosse dai tempi di Falcone che non accadeva o se ci sia stato un altro comitato, ma si tratta di un evento eccezionale. Mi sono chiesto che cosa fosse accaduto a Caltanissetta perché venissero il Ministro dell’interno, il Capo della Polizia, il generale comandante dei carabinieri, i capi dei servizi segreti e il comandante generale della finanza. Non era accaduto niente. Dovevano fare la famosa zona franca, ma, per spostare da Roma un comitato nazionale per l’ordine pubblico e la sicurezza, ci deve essere una ragione molto forte.
Per quanto riguarda Addiopizzo, non so veramente niente. So della simpatia che ho avuto rispetto a questi ragazzi il giorno in cui a Palermo su alcuni paletti sono apparsi quei manifesti. Ricordo che il procuratore della Repubblica Grasso li aiutò. Ricordo il prefetto di allora, che era Marino, mi pare. Li ricordo con simpatia. Poi li ho persi di vista e, quindi, non conosco la loro attività. So che è molto particolare, perché accompagnano le persone. Ho un ricordo lontano di assoluta simpatia nei loro confronti.
PRESIDENTE. Credo che possa essere anche attuale.
ROSANNA SCOPELLITI. Buonasera e grazie per la sua partecipazione. Concordo, bene o male, forse anche per un briciolo di esperienza – la mia è limitata forse più alla Calabria – con le sue considerazioni sull’antimafia sociale. Sono cose che, da calabrese, ho riscontrato.
La collega Costantino parlava di museo della ’ndrangheta, con quel che ne segue. Io ricordo anche il caso di Rosy Canale e delle donne di San Luca. Questa è una vicenda peraltro gravissima, perché si parla di una giovane esponente di un movimento nato proprio a San Luca, laddove l’attenzione dovrebbe essere massima, e si conclude in maniera così misera. Penso che questa questione dovrebbe far riflettere un po’ tutte le associazioni antimafia che ci sono sui territori.
Onestamente, questa mafia dell’antimafia, come è stata definita, è un problema molto serio, perché si fa esattamente il gioco in Calabria della ’ndrangheta e in Sicilia di cosa nostra. Quando ci si fa la guerra fra le diverse associazioni, purtroppo succede che quelli che ne vanno di mezzo siano proprio quei valori importanti e fondamentali della legalità e del bene comune. Soprattutto ne fanno le spese anche quelle associazioni che non hanno assolutamente nulla a che vedere con «scivoloni», se così li vogliamo chiamare, ma che vengono ormai categorizzate.
Se si dice «Faccio parte di un’associazione antimafia», qualche tempo fa si sentiva rispondere: «Bravissimo, che bello, è meraviglioso in una terra come la Calabria». Ormai ti guardano anche un po’ con sospetto perché, purtroppo, c’è questa bivalenza.
Per il resto, concordo pienamente perché l’ho vissuto e, quindi, me ne rendo perfettamente conto. Quello che, però, le volevo chiedere, al di là di questa in considerazione, è altro. Non le faccio domande sulla Calabria, ma sulla Sicilia sì. So che lei è un massimo esperto, almeno me ne rendo conto dalle sue inchieste e dai suoi articoli. Mi può dare un flash sui beni confiscati ? Abbiamo visto il caso Saguto, una situazione veramente imbarazzante negli ultimi mesi. A di là di quello che abbiamo letto sui giornali, che abbiamo potuto tutti condividere e comprendere, vorrei avere qualche sua considerazione da persona positivamente informata sui fatti, perché, bene o male, quello è il suo ambiente, il suo territorio. Che cosa ci può dire ?
ATTILIO BOLZONI. Penso che il caso Saguto non sia isolato a Palermo, che non sia solo un problema di Palermo, non in quei termini, probabilmente. C’è un’inchiesta in corso, ragion per cui so quello che ho letto sui giornali o quello che ho scritto. Credo che sia un problema che riguarda un problema più generale, al di là dell’emergenza a Palermo. Credo che sia un problema da affrontare in maniera seria.
A Palermo è anche un po’ colpa nostra, di noi giornalisti. Parlavamo delle manchevolezze di noi giornalisti. Avremmo potuto affrontare quel caso, perché ne sentivamo parlare da parecchio. Un po’ per timore, un po’ perché avevamo altre cose da fare, un po’ per non aprire diversi altri fronti sempre sul tema antimafia, l’abbiamo lasciato perdere. Si sarebbe potuto affrontare in maniera serena e costruttiva, senza lasciare spazio magari a testate e giornalisti un po’ scomposti in questo senso. Avevo fatto un piccolo cenno sulle colpe dei giornalisti. Poi l’onorevole, giustamente, ha ripreso il tema. Questo è uno di quei temi di cui, per esempio, mi sarei potuto ben occupare. Mi sarei potuto occupare di quella vicenda, ma non l’ho fatto. Credo che sia un problema che riguarda diversi tribunali. Poi c’è questo problema dell’Agenzia dei beni confiscati. È tutto fermo. Ho la sensazione che sia tutto fermo.
Lei ha detto una cosa che mi ha fatto venire in mente un altro fatto. Ha parlato della signora Canale e di quella incresciosa vicenda. Do per scontato che poi ci sia qualcuno che si appropria del denaro, non solo nell’antimafia. Purtroppo accade. Speriamo che ci siano sempre meno ladri.
Il problema, però, è un altro. Prima ho citato Helg. Helg è il presidente della camera di commercio. Per me la cosa scandalosa non è l’episodio filmato dai carabinieri mentre intasca gli assegni o i soldi. La cosa scandalosa è che era un commerciante fallito che da dodici anni era stato eletto presidente della camera di commercio dai commercianti palermitani, dagli imprenditori. Questo è il vero problema, non il ladro occasionale, che può capitare. È il sistema che evidentemente non funziona se si sceglie un commerciante fallito da dodici anni e lo si mette lì.
STEFANO ESPOSITO. Ringrazio anch’io il dottor Bolzoni della presenza. Utilizzando le sue riflessioni, che sono state ampiamente commentate, vorrei buttare lo sguardo su quello che succede nel centro-nord.
Come Commissione, stiamo facendo un lavoro – quest’audizione si colloca all’interno di quel lavoro – che credo alla fine potrà fornire, quando questa legislatura sarà terminata, un quadro che prima non c’era sulla pericolosità, l’ambiguità e l’opacità dell’associazionismo antimafia. Non parlo dell’associazionismo storico, ma dell’associazionismo che sulla scorta delle esperienze di associazioni come Libera e altre si è costruito una propria nicchia, in cui molto spesso è evidente la mano stessa della criminalità.
Se è difficile raccontare la mafia, è ancora più difficile individuare la finta antimafia. Questo è il lavoro che stiamo facendo. Poiché condivido con la collega Costantino il fatto che, come forze politiche, abbiamo non abdicato – significherebbe aver svolto prima un ruolo – ma del tutto rinunciato a occuparci di questa materia, osservo che questo elemento, secondo me, è corroborato da quello che sta succedendo nel nord Italia, in Piemonte, Lombardia e Liguria. Il Veneto è un po’ defilato, forse perché non ci sono ancora state significative azioni della magistratura.
Qui c’è un elemento di limite, naturalmente. Se affidiamo esclusivamente alla magistratura il ruolo di contrasto, indeboliamo lo stesso lavoro della magistratura. Comunque il lavoro della magistratura non è mai risolutivo, perché colpisce un pezzo di fenomeno, ma non contribuisce senza il sostegno delle forze politiche, delle istituzioni, delle associazioni di categoria e dei sindacati a costruire una coscienza. Al nord non sta succedendo questo. Ci si rianima ogni tanto, quando c’è un’azione della magistratura, ma non c’è un costante lavoro di attenzione.
Questo è valso anche un po’ – lei l’ha accennato – per mafia capitale, fenomeno particolare, nuovo per taluni versi, in cui però non solo la politica si è trovata in molti casi spiazzata, se non addirittura parte, ma soprattutto il tessuto civile e culturale è del tutto assente. Se riflettiamo e utilizziamo mafia capitale per fare una riflessione su ciò che è avvenuto, ci rendiamo conto che siamo molto lontani da una sensibilità che neanche in questi mesi vedo maturare.
Vedo questo sulla parte politica, perché mi è più facile – anche la mia parte politica ha avuto delle responsabilità – ma non nel tessuto connettivo profondo. Sarebbe fin troppo facile parlare di Ostia, ma non ne parliamo. Diventa difficile poi pretendere il coraggio dai cittadini in assenza di quell’azione.
Lei ha fatto una critica alla sua categoria. Non ci torno sopra perché potrei solo appesantire le considerazioni. Credo, però, che avremmo la necessità di fare una riflessione sul nord Italia. In questo senso, per esempio, sia i grandi giornali, sia – mi permetto di dire – i pochi giornalisti d’inchiesta che ancora ci sono all’interno dei giornali potrebbero svolgere una funzione.
Sono preoccupatissimo del fatto che il nord sia pesantemente infiltrato. Ce lo dicono le indagini, le ricerche e il lavoro che abbiamo fatto in questa Commissione. Lì addirittura il tema dell’associazionismo al momento non si vede. Probabilmente non ne hanno neanche la necessità, perché si tratta di quella mafia difficile da raccontare, dove non si spara e non si bruciano i quattordici pullman – non gli escavatori dell’onorevole Vecchio – come è successo a Reggio Calabria.
Su questo non ho una domanda specifica, ma chiedo una riflessione a partire dalla sua esperienza, che è molto concentrata nel sud Italia. Avremmo bisogno di capire come possiamo, come soggetto istituzionale, contribuire a far sì che non passi un’idea, che poi tra dieci anni ci troveremo a scontare duramente, di assenza.
Io non sono iscritto ad alcuna associazione antimafia. Mi è capitato anche, come sa il collega Mattiello, di fare in qualche circostanza una rispettosa polemica anche con associazioni come Libera. Se però c’è un elemento che riconosco in assoluto, per esempio, a Libera, che ho più chiara perché è l’unica veramente presente al nord, nel mio territorio, è quello di fare due cose: è l’unica a richiamare costantemente, spesso nel silenzio, la disattenzione delle istituzioni rispetto alle infiltrazioni e un lavoro straordinario, che secondo me andrebbe ancora più rafforzato e sostenuto, è quello di fare iniziative nelle scuole. La capacità di alfabetizzare al rischio e alla presenza della criminalità all’interno delle scuole è un lavoro che non si fa. Non lo fa nessun altro.
Ci sarebbero tanti elementi di discussione, ma non è questa la sede per farla. Un po’ mi preoccupa anche il dibattito che si è sviluppato del mettere sullo stesso piano tutto l’associazionismo antimafia. Può darsi che il network di Libera qualche errore l’abbia compiuto, ma facciamo attenzione al rischio che un’esperienza, che comunque è stata l’esperienza che ha avviato, venga trascinata…
Anche qui un po’ di responsabilità giornalistica c’è, ma adesso non siamo qui a fare il processo a nessuno. Siamo qui a fare una riflessione. Mi piacerebbe capire da un giornalista di inchiesta – per quanto mi riguarda si contano sulle dita di una mano e sono sufficienti – come, facendo tesoro di trent’anni in una terra difficile, evitiamo di ritrovarci tra dieci al nord completamente scoperti. Il dato che io registro è questo.
Chiudo raccontando un episodio. A Torino ho voluto organizzare un’iniziativa. Ho chiamato il presidente dell’associazione dei commercianti, dicendo: «Ti inviterei a fare una riflessione pubblica». La prima risposta che ho avuto è stata: «Sì, ma sia chiaro che quegli imprenditori non erano iscritti alla mia associazione». Non era questo lo spirito con il quale facevo quella telefonata, ma segnala la difficoltà nel percepire.
Il paradosso è che fino a cinque anni fa c’era un numero verde anonimo per le denunce degli imprenditori che venivano taglieggiati. Quel numero è stato chiuso nel momento in cui il fenomeno è emerso in tutta la sua enormità, oserei dire. Su questo tema le chiederei se c’è la possibilità di una riflessione da parte sua su come il lavoro della Commissione possa continuare sul versante della verifica dell’associazionismo antimafia, ma anche su come sostenere e aiutare attraverso il nostro lavoro una maggiore consapevolezza delle istituzioni. Se mi posso permettere, essa è molto deficitaria al nord, senza guardare il colore politico, perché qui di professionisti della politica che fanno antimafia non ne vedo. Ognuno ha limiti profondi nella capacità di costruire quella consapevolezza necessaria.
ATTILIO BOLZONI. La materia è un muro. Pensi che l’altro giorno – mi chiedeva che cosa può fare un giornalista – ho scritto un articolo su Lirio Abbate, un mio collega de L’Espresso, che è stato più volte insultato dall’avvocato che rappresenta Carminati in aula, nel silenzio generale. Lo stesso avvocato ha insultato più volte l’avvocato di parte civile di Libera, l’avvocato Vasaturo, e due ufficiali dei carabinieri – mi dicono – che stavano testimoniando. Mi sembrava giusto raccontarlo, perché, quando qualcuno punta il dito contro una sola persona, un giornalista, per me è estremamente pericoloso.
Ho fatto un pezzo, un commento sul giornale. Il giorno dopo nessun giornale aveva la notizia. Il giorno dopo ancora nessun giornale aveva la notizia. Mi raccontava lo stesso Lirio Abbate che solo un paio di telegiornali – credo il TG2 e forse Sky, non so bene – hanno dato la notizia. Quindi, c’è stato un silenzio totale. Se noi stessi giornalisti non riusciamo, che cosa mi sta chiedendo, mi scusi?
Le posso raccontare anche un altro episodio. Sono andato la prima volta a Corleone il 26 settembre 1979. Mi ricordo la data perché il giorno prima avevano ucciso il consigliere istruttore Cesare Terranova, il magistrato che aveva scoperto i corleonesi nel 1958, come giudice istruttore.
Ricordo il clima che c’era a Corleone nel 1979. Era identico a quello che ho trovato pochi anni fa nell’agro pontino, a Fondi, a Latina, a Cisterna. Mentre, però, i corleonesi sono corleonesi siciliani, con tutta la tradizione della Sicilia – penso all’omertà e al romanzo Il Padrino di Puzo, il cui protagonista si chiama Vito come Ciancimino e Corleone come il paese – a Latina erano veneti e friulani, ma l’omertà che ho trovato in quella zona…
Lei ha citato Ostia. La scorsa estate ho passato diverse giornate a occuparmi di Ostia perché la ritengo un laboratorio politico-criminale straordinario. Per me è un po’ Brancaccio e un po’ Casal di Principe. È un incrocio. È impressionante, presidente. Ostia è impressionante, anche a proposito delle finte associazioni antimafia che ci sono a Ostia.
PRESIDENTE. E anche un’informazione abbastanza bizzarra.
ATTILIO BOLZONI. È difficile dirlo. Lei chiede a un giornalista che cosa si può fare. Se poi mi porta al nord e sento alcune dichiarazioni di alcuni uomini politici di tutti i colori, qualcuno dice: «Noi abbiamo gli anticorpi». No, voi gli anticorpi non li avete proprio.
C’è anche un altro aspetto – l’espressione è bruttissima – della penetrazione al nord delle mafie. Al nord le mafie ci sono dal 1963. Giacomo Riina è dal 1967 in Emilia-Romagna. Fa molto senso poi sentire alcuni rappresentanti di partiti dire: «L’abbiamo scoperto ora». Ce l’avete lì da più di cinquant’anni.
ANDREA VECCHIO. La mafia è insita nell’uomo.
PRESIDENTE. Vi consiglierei di non addentrarvi in questa discussione biologica.
ATTILIO BOLZONI. Non ci sono gli anticorpi. Qualche volta, scherzando, perché ormai al sud hanno spremuto tutto quello che c’era da spremere in Calabria, in Sicilia, in Puglia e in Campania, parlando con degli amici, dico: «Se continua così, vi ritroverete mafia, camorra e ’ndrangheta in Campania, Calabria e Sicilia». Se ne sono andati da tanto tempo fuori con i loro affari. Possono tornare, al massimo. Possono tornare, ma è da tanto tempo che sono nel mondo.
Non so come risponderle. Da giornalista, le potrei dire solo delle banalità. Mi accorgo che ci sono città come Palermo – appunto, è una banalità – dove ci sono le ferite che ancora sanguinano, le stragi dei magistrati, dei poliziotti, dei carabinieri. È una città cresciuta sulle tragedie, sul sangue. In qualsiasi scuola di Palermo non si fa antimafia perché lo vuole il ministero, ma perché ci sono gli insegnanti, le sorelle, i figli e i cugini che ce l’hanno dentro. I ragazzi e i bambini crescono con questo.
Parlo di questa generazione, perché Palermo è molto meglio della Palermo di venticinque anni fa. Si sono fatti passi avanti. È stato un cammino doloroso e faticoso, ma si è andati avanti, non indietro. A Palermo ci sono una coscienza civile e una passione rispetto a queste cose che non sono paragonabili a quelle di Bologna, ma è naturale che sia così.
GIUSEPPE LUMIA. Condivido questo punto, che ha posto anche il dottor Bolzoni all’inizio sul tema del movimento antimafia. Bisogna recuperare veramente – le tue parole sono importanti – molta umiltà, riprendere molta progettualità, ricapire come il fenomeno si è evoluto, reinvestire, togliersi quel maledetto vizio antico del «leaderismo» e togliersi quell’altro vizio antico micidiale, che spesso fa più male internamente della stessa minaccia mafiosa, che è il conflitto interno. È un vizio micidiale e antico che si riproduce in forme nuove, ma che c’è sempre. Questo è un cammino che va fatto e che va fatto presto, pena la credibilità della stessa antimafia.
Mentre parlavi, ricordavo che durante quel movimento che spesso viene dimenticato ed è poco studiato dei fasci siciliani alla fine dell’Ottocento-primi del Novecento, che fu un grande movimento storico, di migliaia di persone – ricordo solo per i colleghi le leghe delle donne; si pensa che nell’arretrata Sicilia non ci fossero e, invece, erano molto attive; se si guarda Corleone, dicono gli studiosi che il primo contratto collettivo in quelle forme rozze fu sperimentato a Corleone con le affittanze collettive, un grande movimento innovativo per quegli anni – la mafia usò due sistemi. Un sistema era la morte: uccise tutti i migliori. Con l’altro tentò anche di infiltrare quel movimento, per svuotarlo dall’interno e fargli perdere credibilità.
Questo è un problema che il movimento antimafia ha nella sua storia e che sempre si riproduce. Si tratta di evitare la doppia azione: la mafia o ti uccide o ti inquina. Sintetizzo brutalmente per farci capire in quest’ora tarda. Questo è un problema molto serio, che c’è e ci sarà.
Una delle cose che possiamo comprendere è avere più progettualità, meno «leaderismo» e meno gestione. Questo è il punto importante. Spesso mi sono accorto, nella mia esperienza, che, quando arriva la gestione, casca l’asino. Gestire significa gestire potere e risorse. Nello stesso tempo, però, alcune volte non si può fare a meno della gestione, perché, se si vuole promuovere un’attività seria – pensiamo alle cooperative – una delle prime attenzioni è quella delle regole. Quando si va a gestire, le regole devono essere il punto di partenza: bilanci pubblicati, molta trasparenza, verifica profonda delle persone a cui ci si affida e di come ci si comporta, rendere pubblico e dare atto continuamente di quello che si fa.
Su questa vicenda di Confindustria mi sto interrogando da mesi. O è l’inganno del secolo… Bolzoni ha un grande merito: l’ha vista per primo. L’ha già fatto nella sua lunga carriera. Spesso sei arrivato prima. Te ne do atto. È la storia che lo dice. Non è un mio particolare merito riconoscere questa cosa. Nella lunga storia dell’antimafia sei arrivato spesso primo per questo tuo spirito, per questo tuo modo di fare e anche per questa capacità autocritica che, per onestà, hai mostrato questa sera. Ti dà la possibilità di annusare, di non avere pregiudizi e di arrivare prima che ci arrivino altri.
Hai detto una cosa vera: dal 1992 in poi lo Stato non aveva mai agito in questo modo, giorno dopo giorno, sempre. Hai usato un’espressione molto chiara: atto dopo atto – mi pare hai detto – secondo dopo secondo. Mi sono andato a vedere il tema. Non ho avuto molto tempo perché sono impegnato con le unioni civili e chiedo scusa, di solito vengo un po’ più preparato. Il procuratore generale di Caltanissetta, persona serissima, oggi procuratore generale di Palermo, al di sopra di ogni «sospetto», capace, onesto e brillante, nell’inaugurazione dell’anno giudiziario, dell’anno istituzionale, usando parole istituzionali, quindi non in un’intervista ruffiana di celebrazione, spiega che quello è un modello, è un simbolo. Spiega che quella realtà di Caltanissetta, e cita i nomi…
ATTILIO BOLZONI. L’anno scorso ?
GIUSEPPE LUMIA. No, nel 2011. Ci può stare, però. Nel 2011 siamo nella fase in cui anche Bolzoni, Lumia e tanti guardavamo con interesse a quell’esperienza, no ? Ci può stare.
La cosa che mi preoccupa è che il presidente della corte d’appello nel 2015, dopo che già erano usciti gli articoli, dichiara che c’è una strategia tesa a delegittimare.
ATTILIO BOLZONI. La relazione era precedente.
GIUSEPPE LUMIA. Sì, ma è stata fatta a gennaio 2015. Anche la DNA fa un’altra relazione. La DNA fa una relazione e la presenta dopo gli articoli. Ho visto le date. La presenta addirittura dopo i tre articoli che tu hai scritto, severi, rigorosi, «pesanti». Anche lì si diceva che c’era un’azione. Non cito perché sono parole molto dettagliate e precise, che scandiscono.
Potrei continuare: mondi della magistratura diversi, uffici diversi, contesti diversi, Capo della Polizia, comandante generale, DIA, relazione della DIA. Che cosa non ha funzionato in questo ? Loro hanno più mezzi di te, di me e di noi per poter andare a verificare se ci siano delle manipolazioni, anche lì in un mondo che funziona, che sta funzionando. Al di là del caso Saguto, tutto sommato, quel mondo tira, lavora, produce e dà risultati.
È questo che mi preoccupa. Spesso ci facciamo anche guidare da loro, che hanno i mezzi, perché intercettano, fanno indagini, lavorano e hanno strumenti che noi non abbiamo. Fanno i magistrati e le forze dell’ordine. Questo è un punto che mi arrovella dentro da mesi e mesi. Se è stato l’inganno del secolo, sono stati bravi. Se non è stato così, è chiaro che la vicenda diventa complicata.
Che cosa non ha funzionato in quel mondo per dare quell’accredito costante ? Dal 2007 al 2015 è stato ripetuto, costante e sistematico. Non penso che sia il prodotto di elargizioni, di potere e di soldi. Sono magistrati, gente che lavora, quella che tu dici. Mentre noi siamo qui, loro stanno lavorando e magari domani ci presentano un altro bel risultato, dopodomani ancora e così nei prossimi mesi. Non penso che la lettura possa essere che erano al soldo.
ATTILIO BOLZONI. No, per carità.
GIUSEPPE LUMIA. Che cosa non ha funzionato in quel mondo ?
ATTILIO BOLZONI. Innanzitutto dopo dodici mesi le relazioni saranno profondamente diverse. Abbiamo già visto all’inaugurazione dell’anno giudiziario di Palermo e di Caltanissetta…
GIUSEPPE LUMIA. Questa la devo vedere. Sarà interessante. Tu facevi riferimento a quella dell’altro ieri. Me l’andrò a vedere.
ATTILIO BOLZONI. Ci sono delle relazioni già pubbliche. C’è stata una virata di 180 gradi rispetto alle relazioni dell’anno scorso. Certo, questo non significa che qualcosa non abbia funzionato, è ovvio. Penso, però, a due cose.
La prima è legata a quando parlavo dell’anomalia della mafia corleonese. La mafia che spara e che fa stragi l’abbiamo individuata come il modello tipo. Sarò quasi vecchio, ma non sono così anziano da non ricordarmi gli anni Cinquanta o gli anni Sessanta, perché andavo a scuola. Mi ricordo, però, anche se andavo a scuola, che vedevo in alcuni paesi e in alcune città il procuratore a braccetto col capomafia. Vedevo il colonnello dei carabinieri che andava a casa del capomafia. Vedevo il poliziotto, o il questore o il prefetto a braccetto col capomafia. Me li ricordo da ragazzino, da bambino, in diversi paesi della Sicilia.
GIUSEPPE LUMIA. Ci sono anche le relazioni dell’inizio dell’anno giudiziario in cui si dice che la mafia non esiste.
ATTILIO BOLZONI. Se uno non riconosce più la mafia e la riconosce come la mafia che spara, è possibile che dopo si ritorni a un ciclo della mafia. Nei convegni diciamo che la mafia è invisibile, che la mafia si mimetizza, che la mafia è intorno a noi. È intorno a noi, ma cammina a braccetto con noi e non ce ne accorgiamo. È possibile che sia accaduto questo, ma non solo in questo caso, in generale.
C’è, però, un aspetto un po’ più tecnico. Il magistrato o il poliziotto… Il poliziotto fa le indagini. Il magistrato riceve il rapporto e fa il suo lavoro. Il problema è un altro: a parte noi, per esempio i servizi di sicurezza in questa storia, secondo me, c’entrano molto. C’entrano molto anche con gli attentati. Chi ha fatto gli attentati a questi imprenditori ? Chi è entrato in una notte di settembre di non ricordo quale anno dentro Confindustria a fare le incursioni ? A me risulta dalle rivelazioni e dalle dichiarazioni dei pentiti di cosa nostra che non è stata cosa nostra. Chi è stato ? Perché i servizi di sicurezza hanno continuato per anni a lanciare allarmi in continuazione su questi imprenditori che erano in pericolo di vita ? Non spetta ai magistrati, al poliziotto o al carabiniere, che svolgono le indagini che devono svolgere.
Nella relazione iniziale ho dedicato mezza riga a impresa e servizi di sicurezza. Ci sono state commistioni anche a quel livello. Quando parlo di pigrizia, questa pigrizia riguarda tutti noi. Soprattutto in Sicilia, dove ho vissuto anni drammatici, un certo rilassamento credo abbia colpito e coinvolto tutti. Ho capito, per esempio, che a un certo punto c’erano tutti i segnali. Il territorio racconta sempre tutto e in Sicilia c’erano tutti i segnali per capire.
Io ho fatto uno sbaglio clamoroso in questa storia: non me ne sono occupato prima, anche se avevo tutti gli elementi per occuparmene.
PRESIDENTE. Forse faccio una domanda che sarà senza risposta. In realtà, ne avrei diverse. Una riguarda l’ultima frase dell’introduzione, quando ha detto che non ha avuto meno problemi da quando si interessa di antimafia rispetto a quando si interessava della mafia delle stragi, sostanzialmente. Anche per il nostro lavoro su informazione e mafia, che continuerà – abbiamo preso l’impegno – credo che questo sia un aspetto sul quale, anche se non può rispondere questa sera, ci piacerebbe capire qualcosa di più. Immagino, peraltro, che gli strumenti siano diversi rispetto a prima. Magari mi sbaglio.
L’altro aspetto che mi ha colpito è l’espressione «antimafia consociativa» – questa è un’espressione che richiama al potere, perché si è consociativi nei rapporti di potere – e compiacente con il potente di turno. C’è di mezzo di nuovo la politica con forme diverse, o si tratta di un fenomeno solo di carattere economico ?
Passo alla terza domanda, che nasce da una riflessione. Ho notato – penso e spero che l’abbiate notato anche voi – un’affinità con quanto ci ha detto il professor Lupo, che, non a caso, abbiamo chiamato per primo sul caso Sicilia. Abbiamo poi sentito Sales sulla camorra e sull’antimafia in rapporto alle mafie e sentiremo anche Ciconte.
La tesi del professor Lupo è stata sostanzialmente simile alla sua, mi sembra, o la sua è simile a quella di Lupo: l’antimafia è un movimento che si è costruito contro la mafia delle stragi, la mafia delle stragi è stata una parentesi nella storia della mafia, l’antimafia è rimasta e sta ancora combattendo quella mafia che non c’è più.
Fermo restando che la mafia comunque la violenza continua a usarla – in maniera diversa, ma non bisogna mai dimenticare questo aspetto; non bisogna mai sottovalutarlo e archiviarlo perché c’è ed esiste – indubbiamente, se questa tesi è giusta, e in parte la condivido, significa che una lotta alla mafia vera non abbiamo imparato a farla. Ci mancano strumenti di analisi per capire qual è la mafia di oggi, come si esprime la mafia di sempre oggi, a parte la parentesi delle stragi, e di quali strumenti ci dobbiamo dotare per combatterla.
L’onorevole Esposito diceva che nelle scuole bisogna andarci. Sicuramente, forse bisogna andare anche nelle università e nelle aziende, e forse anche tra i professionisti. Forse occorre usare diversamente lo strumento, anche quello che passa dalla televisione.
Per esempio, i pochi esempi virtuosi della televisione riguardano quella mafia lì. Gli eroi antimafia sono quelli che combattono quella mafia lì, non quelli che combattono le forme della mafia di oggi. Bisogna anche sensibilizzare il grande pubblico su questo. Se non è solo un problema di eroi e di specialisti, bisogna capire come si arriva a tutti.
La questione è molto più sofisticata, evidentemente. Penso anche a quello che diceva adesso l’onorevole Lumia. Ho capito il discorso sui servizi. Faremo una riflessione anche su questo e sugli attentati, ma c’è un altro discorso da fare. Perchè sia un magistrato o un poliziotto a scoprire quello che sta accadendo bisogna arrivare a commettere un reato. Il ragionamento di stasera è diverso: anche se non ci fosse il reato, ci troviamo di fronte a un’occupazione del potere in nome dell’antimafia che comunque va combattuta. Non sarà mafia, ma è un uso distorto della lotta alla mafia. Prima che arrivi un magistrato ci vorrebbero le antenne da un’altra parte per capire queste cose, in maniera particolare nella politica.
Lei dice: «Non potete chiedere a me», ma forse bisogna che questa risposta la confezioniamo insieme. Alla fine di quest’inchiesta, oltre che descrivere i fatti e mettere in evidenza le ambiguità e le contraddizioni, bisognerà anche indicare un percorso, in qualche modo. È vero, non dovrebbe toccare a una Commissione d’inchiesta, ma abbiamo imparato anche a essere un po’ propositivi.
Per esempio, ritengo che anche un po’ di soldi ci vogliano. Ci vogliono un po’ di soldi. Se uno si dedica a fare questo lavoro, di qualcosa deve vivere. Se, invece, fa l’antimafia perché così trova lavoro, è un altro discorso. È un altro ragionamento, chiaramente.
I fondi pubblici sono necessari, a mio avviso. Starei bene attenta prima di dire che vanno tolti. Sono d’accordo a fare la verifica di come vengono usati, a fare una selezione seria della qualità e a capire perché alcuni non vengono spesi. Bisogna capire non solo come sono stati spesi i PON, ma anche perché tanti non vengono utilizzati.
Bisognerà trovare modi diversi, perché probabilmente ci siamo, anche in quel caso, sclerotizzati in alcune cose. Poi vengono fuori le sciate, ma potrebbe trattarsi di una pattinata o di qualunque altra cosa. Magari è stata una grandissima occasione per le persone che hanno partecipato per sensibilizzarsi contro la mafia. Non lo sappiamo.
Indubbiamente, poiché ci muoviamo con questo intento, sottolineo che vanno trovati i modi per smascherare, se vogliamo, anche i sistemi mafiosi che possono annidarsi anche nell’antimafia.
ATTILIO BOLZONI. Presidente, sulla prima domanda la prima sensazione, che per me non era nuova – lo ricordava il senatore Lumia – è l’isolamento. Mi era già capitato in altre occasioni negli ultimi vent’anni di occuparmi di casi spinosi di mafia, più che di antimafia, ma anche sul fronte antimafioso. Mi sono ritrovato non per un anno, ma… Ormai la vicenda, grazie anche a lei, che ha accolto immediatamente a marzo… La presidente Bindi ha annunciato già a marzo l’apertura di questa inchiesta, a meno di due settimane dal primo articolo che ho scritto. Anche su altri fronti, penso per esempio al covo di Riina, di cui mi sono occupato in solitudine per dieci anni, mi hanno fatto venire i capelli rossi.
Perché ? A me non interessa. Non sono né un magistrato, né un poliziotto. A me interessa porre la questione. Quanto all’esito di questa vicenda del signor Montante o degli altri, spero che ne escano tutti nel migliore dei modi. A me interessava porre la questione. Aver posto questa questione mi ha creato diversi problemi, a parte l’isolamento.
Alcune cose credo di poterle dire. Sono stato pedinato per settimane. Se mi pedina un poliziotto o un carabiniere, sono sicuro di non accorgermene. Sono troppo bravi. Se mi pedina qualcun altro, me ne accorgo. Eccome se me ne accorgo. I miei familiari hanno subìto aggressioni, non so di che tipo. Ho avuto problemi con i telefoni, tant’è che sono state presentate delle denunce.
Mi sono successe un po’ di cose nella primavera scorsa. Sono stato avvicinato da personaggi insieme a un altro collega, con cui ho lavorato inizialmente su questa vicenda. Quando c’è un’aria un po’ pesante…
PRESIDENTE. Posso farle un’altra domanda ? Qualcuno ha cercato di intralciare il lavoro d’inchiesta ?
ATTILIO BOLZONI. Qualcuno ci ha provato. Qualcuno ci ha provato, ma, per fortuna, lavoro in un giornale il cui direttore è stato impeccabile. Non avevo dubbi. Qualcuno ha provato a fare pressioni molto forti. Probabilmente era abituato così con altri giornalisti. Il fatto che facciano pressioni mi ha ringalluzzito un poco. Mi sono messo a lavorare più del solito. Sì, è accaduto anche questo, e in maniera anche abbastanza violenta. Qui mi fermo.
Quanto all’antimafia consociativa, forse è una parola un po’ forte, ma perché una forza politica non dovrebbe cercare di appropriarsi di una grande associazione antimafia, di poterla pilotare, di poter utilizzare i voti di quest’associazione e di poter orientare le scelte ? Presidente, lo do quasi per scontato. Do quasi per scontato questo. Non sto parlando di un’associazione in particolare, è ovvio.
Penso, per esempio, al rapporto con le cooperative di alcune associazioni. Non voglio fare nomi in particolare, ma sono rapporti che fanno pensare. C’è tutto un mondo che si muove. Quando all’inizio ho detto che l’antimafia è diventata un capitale e un valore per la mafia, possiamo anche dire che l’antimafia è diventata un capitale e un valore anche per le imprese e per la politica, non solo per la mafia. Se mi chiede se ci siano degli interessi generali intorno a questa benedetta – o maledetta – questione, sì, ci sono, secondo me, e da molto tempo, non da adesso. Credo che ci siano proprio da molto tempo.
Di questa vicenda dell’antimafia, come sapete, si parla in questi termini da quel 10 gennaio 1987, quando Leonardo Sciascia ha scritto sulla terza pagina del Corriere della sera il famoso articolo «I professionisti dell’antimafia». Vorrei ricordarvi che nel pezzo, nell’articolo di Sciascia, l’espressione «i professionisti dell’antimafia» non era presente. Era presente solo nella titolazione, ma ne è divampata una polemica.
PRESIDENTE. È capitato anche a Sciascia.
ATTILIO BOLZONI. Sì, c’era solo nella titolazione. «I professionisti dell’antimafia» non è un’espressione coniata da Sciascia. Quella polemica si trascina fino ad oggi, fino a questa sera in cui ne stiamo parlando.
Ricordo l’ultimo discorso pubblico di Borsellino a Casa Professa, alla fine di giugno del 1982, quando pubblicamente disse: «È cominciato tutto quel giorno, con quell’articolo di Sciascia». Lo ricordo come se fosse ieri. È vero che Borsellino e Sciascia si incontrarono due volte con le loro famiglie in un ristorante di Marsala e si scambiarono impressioni su Joe Bonanno. C’era la vicenda stranissima di un barbone che – poverino – era morto. Pensavano che fosse il fisico Ettore Majorana, ricomparso a Mazara del Vallo. Borsellino era convinto che tutti i loro problemi – i suoi e di Falcone, voleva dire; era il 23 giugno, il trigesimo, a Casa Professa – fossero iniziati da là.
Anche queste campagne strumentali che ci sono state sui beni confiscati contro Libera sono strumentali, perché, ripeto, Libera non è una holding dei beni confiscati. Ha altri problemi, ma non quello. Questi problemi ritornano sempre intorno a quella famosa espressione, «i professionisti dell’antimafia». Sono passati ventinove anni. Era il 10 gennaio.
Per quanto riguarda le soluzioni, certo che dobbiamo avere le antenne tutti, presidente. Le deve avere la politica e dobbiamo averle noi. Spesso vado nelle scuole. Anche lì ci vogliono sistemi nuovi. I ragazzi li stendiamo. Mi è capitato di andare in alcune scuole e di stendere contemporaneamente trecento ragazzini. Bisogna trovare delle formule nuove.
PRESIDENTE. Anche perché andare a parlare di Falcone e Borsellino è una cosa. Andare a parlare delle infiltrazioni dentro le aziende è un’altra. Non crea la stessa emozione.
ANDREA VECCHIO. Io sono stato ieri in una scuola elementare e ho parlato a ottantasette bambini delle quinte elementari. Volevano sapere da me che cos’è la mafia. Ho iniziato parlando del bullismo e ho detto ai bambini: «Se c’è qualcuno di voi qui che cerca di prevaricare un suo compagno, gli ruba la merenda e fa il bullo, lì c’è un germe di mafia. Dovete controllare queste cose». Ho parlato per tre ore di seguito e questi bambini li ho sfiancati. Alla fine erano bloccati.
GIUSEPPE LUMIA. Scusi, onorevole Vecchio, mi pare di capire che il problema sia un progetto primo e un progetto dopo. Andare lì a fare la messa cantata e andare via… C’è un cammino preparatorio e un cammino che prosegue.
ATTILIO BOLZONI. La presidente prima ha parlato della rappresentazione della mafia che fanno alcuni programmi. Ricordo la tanto criticataPiovra, la prima, che ha fatto conoscere agli italiani una mafia che i giornali allora non raccontavano perché parlavano di finanza. È andata bene. Ci fu polemica perché alla vigilia di un’elezione politica, si voleva sospendere la proiezione della terza e della quarta puntata in quanto, secondo qualcuno, poteva condizionare l’esito del voto.
Lo spirito con il quale la presidente ha aperto l’indagine, non per delegittimare, ma al contrario, credo sia il primo passo per poter andare avanti, sempre distinguendo e non generalizzando. Poi il giornalista fa il suo lavoro, cercando di farlo dignitosamente e in un certo modo. Voi farete il vostro e gli imprenditori faranno il loro.
PRESIDENTE. Grazie. Credo che sia stata una serata molto utile. Oltre agli elementi che abbiamo sottolineato in questo dibattito, riascoltando l’introduzione, credo che avremo anche altri elementi sui quali acquisire ulteriori formazioni e approfondire.
Ringraziando il dottor Bolzoni, dichiaro conclusa l’audizione.
La seduta termina alle 22.15.